VII

Proprio nel convergere nello studio storico-critico posso meglio configurarmi à rebours (e in funzione non di autobiografia, ma di rappresentazione dell’esercizio di un metodo) il procedere della mia stessa esperienza critica nel caso (sdoppiabile solo per esigenze pratiche, ma realmente unico nella sua radice interpretativa) della interpretazione di un singolo poeta e dell’intervento in un singolo problema critico o in quello della interpretazione di un’epoca letteraria scandita entro il movimento generale della storia letteraria e dei suoi nessi storici generali.

Parlo anzitutto del problema critico del Leopardi e di una mia interpretazione ripresa piú volte – dal ’34-35[1] in poi e tuttora in movimento verso una intera monografia leopardiana – ma fin dall’inizio sostanzialmente innervata nel rapporto poetica-poesia impostato in quella ricostruzione dinamica e storica della personalità poetica che ha preso sempre piú per me una maggiore concretezza e ricchezza di particolari organici e un progressivo approfondimento della nozione di poetica nel suo senso piú interno e nella sua complessità di evidenziate implicazioni: il caso recente del diagramma sintetico pariniano, della interpretazione carducciana, dell’articolazione di momenti dello sviluppo alfieriano e foscoliano, base di nuove monografie in costruzione.

Quella interpretazione era stimolata insieme da una discussione e utilizzazione della storia della critica leopardiana fra la reazione appassionata alla diagnosi crociana del poeta dalla vita strozzata e dell’unico motivo idillico (con ciò che quella reazione comportava in sede generale contro il misconoscimento dei profondi rapporti vita-poesia e cultura e storia-poesia, di isolamento di un nucleo immobile di poesia in qualche modo noumenico e indifferente alla vita mossa della personalità creativa troppo superficialmente e poco storicamente rappresentata, di dura frattura fra poesia e non poesia) e un intenso avvertimento della fecondità del modulo interpretativo desanctisiano di biografia critica offerto dal saggio incompiuto sul Leopardi. Modulo desanctisiano che io venivo riprendendo (e forse meglio ne ebbi coscienza piú tardi attraverso i miei studi desanctisiani) e riportando ad una nuova forma di svolgimento vita-poesia mediato dalla poetica. E quella forma nuova indubbiamente permetteva, al di là del De Sanctis (la cui profonda esemplarità non può essere mai un semplice ed equivoco ritorno a lui), una piú sicura valutazione della poesia leopardiana, del suo sviluppo e del suo impegno elaborativo, ma certo risentiva della lezione desanctisiana di interpretazione storica e dinamica del Leopardi e dei vigorosi spunti critici che, contro la stessa tesi idillica, affermavano elementi della natura eroica leopardiana, della sua potente moralità, anche se nel grande critico non erano stati portati a piú decisi e organici sostegni della realtà di una poetica e poesia non idillica negli ultimi canti.

In quella discussione, e nel rimando che il modulo desanctisiano e nuovi studi sul rapporto pensiero-poesia e sulla posizione storica del Leopardi (Gentile e Salvatorelli) suggerivano una piú forte indagine della personalità complessa e in movimento, dello svolgimento delle posizioni ideali e combattive del Leopardi, nel suo tempo, la prima impressione di altezza e novità e coerenza interna degli ultimi canti (un primum parziale, ma che corregge comunque la falsa idea di una nascita di problemi critici «solo» per discussione con la critica precedente) mi si venne chiarendo con maggiore consapevolezza. E si precisò nella individuazione di una poetica nuova non idillica, in cui il poeta aveva disposto in direzione artistica – e quindi con tutta una coerente impostazione di linguaggio, di tecnica, di problemi e modi espressivi – la sua nuova esperienza e la coscienza poetica del suo significato umano e storico, la sua impostazione di persuasione eroica e di combattivo impegno nel suo atteggiamento speculativo e morale, che lo avevano condotto ad abbandonare la pur sua ed altissima posizione della poetica del ricordo e dell’elegia idillica.

Lo studio di poetica realizzava cosí l’accertamento di una diversità nella vita e nella poesia dell’ultimo Leopardi, in un nuovo rapporto profondo fra queste e in una volontà e disposizione di realizzazione artistica che si svolgeva coerente, e non perciò rigida e immutabile, sino alle forme singolarissime della Ginestra, inspiegabili (se non come caduta di gusto e di ispirazione) se misurate sul paradigma della poetica idillica, ma ben diversamente valutabili se ridispiegate nella loro genesi intera dalle ragioni interne commutate in direzione artistica, in una poetica che portava alle estreme conseguenze di forme sinfoniche, paraboliche, scabre e risentite l’impostazione energica e perentoria dei canti del ’31-32, come la posizione leopardiana di combattività, di presenza ed intervento storico, di persuasione di personali e storici valori e disvalori, era lí portata alle sue estreme conseguenze.

Una diversa poetica, una diversa poesia che spiega la natura dei risultati concreti (per me altissimi nella loro qualità migliore, anche se variamente tali e non perciò superiori alla perfezione dei grandi idilli) e che è stata comunque momento essenziale per la comprensione e valutazione di una poesia prima variamente e saltuariamente accettata quasi a malincuore o duramente svalutata come momento di precoce vecchiaia poetica e di inasprimento intellettualistico e didascalico. E la cui individuazione (accettata poi da vari critici fra cui, in primis, il Sapegno[2]) derivava da un’intuizione e dalla sua precisazione attraverso un metodo di studio cosí diverso dalla interpretazione particolare e generale del Croce, rifluendo a sua volta in una modificazione della storia della poesia nell’Ottocento romantico italiano e in una modificazione di tutte le possibilità della poesia leopardiana in genere non solo creatrice di miti perfetti e conclusi ed armonici (e ci sarebbe poi assai da dire sugli stessi grandi idilli leopardiani e sulle loro interne tensioni), ma capace di forme diverse di intervento, di poetico messaggio, di sollecitazione di nuova poesia e di nuovo pensiero e di nuova moralità in forme piú urgenti e dirette: e nata non malgrado il pensiero e la moralità, ma anzi in forza di una potente struttura intellettuale e di un supremo coraggio di moralità e di verità).

Naturalmente (come io stesso ho in parte fatto rispetto alle prime formulazioni del ’34-35 e come sto sempre piú facendo nei confronti dell’intero Leopardi) con una possibilità coerente di ulteriore precisazione sia nel fondo storico[3] e personale (Leopardi e la Restaurazione, Leopardi e l’opposizione alla cultura spiritualistica, Leopardi e gli stimoli giordaniani in senso civile, ecc. ecc.), sia nel consolidamento di linguaggio, di stile attraverso esigenze centrali e sollecitazioni ed esperienze letterarie (Leopardi e Alfieri, Leopardi e Ossian, ecc. ecc.): ampliamenti e precisazioni che comunque derivano la loro necessità da quella posizione e da quel metodo, meglio che da letture e verifiche che non partano dal centro vivo di una personalità poetico-storica e della sua poetica o da studi che non considerino la destinazione artistica e i modi artistici di una personalità storico-poetica e si contentino di leggerne la poesia in forma di documento prosastico, di parafrasi contenutistica.

Ma, fin dai suoi primi pronunciamenti, quella interpretazione leopardiana chiedeva dal suo seno questo irraggiarsi e articolarsi di precisazioni concrete (sollecitate poi dallo sviluppo del mio metodo e dal suo dialogo con la critica contemporanea) e implicava una posizione di lotta con il preciso metodo crociano, che mi pare storicamente assai importante negli anni in cui si svolse.

E se volessi cercare facili fortune e prendermi la mia parte fra i precursori dell’anticrocianesimo attuale mi sarebbe facile insistere su queste anticipazioni. Mi preme invece sottolineare il positivo di quelle posizioni in vista di una battaglia piú attuale ed urgente di quella contro le forme del crocianesimo ortodosso: voglio dire del fatto che quella posizione implicava l’affermazione della genesi storica della poesia, di un poeta, ma nell’accordo interno, storico-personale, non in forma documentaria e passiva, rinnovava concretamente un problema critico e portava in luce poesia (ciò che alla fine è la verifica suprema della vera novità di un metodo critico, piú che la novità delle sue formule e del suo linguaggio), permetteva di arricchire la storia non solo letteraria con l’individuazione e l’immissione di una forza qual è quella dell’ultima poesia eroica leopardiana.

E cosí nel caso della poesia ariostesca il mio intervento (iniziato nel ’38-40 e sviluppato nel ’47[4]), proprio perché appoggiato sullo studio della poetica e su di una chiara prospettiva storico-critica, imprimeva una svolta sensibile nel problema critico ariostesco. Permetteva un recupero del valore artistico delle opere minori, raccordate a toni minori della poesia del capolavoro; risolveva il rapporto interno e storico dell’Ariosto con la vita e con la storia del suo tempo in modi diversi dal «nobile sognare» momiglianesco e del puro amore per l’armonia cosmica del Croce, anche se di quelle formule utilizzava la spinta ariostesca ad una realtà superiore e pur non slegata da quella mondana e antiascetica; rifiutava le forme del misticismo estetico e quelle del puro edonismo stilistico e linguistico o viceversa di una rappresentatività storico-sociale portata poi al livello di una libellistica antiestense o di una diagnosi improbabile della situazione economica del delta padano. Su quella via molto v’è da precisare e approfondire e certi stessi elementi epici «senza sorriso» (come il grande episodio della battaglia di Lipadusa) mi porterebbero adesso a rivedere quel mio lavoro e a rafforzare dell’Ariosto la profonda serietà umana e storica, il nesso con la libertà critica del Rinascimento, la modernità storica della ripresa delle favole romanze e del loro significato di fronte alla crisi del «bel viver» insidiato dalle guerre in Italia[5].

Ma anche qui, conscio di un certo sbilanciarsi eccessivo del mio studio di poetica verso forme di equivalenza musicale eccessiva e verso un’accentuazione a volte eccessiva del calcolo ariostesco, non mi par di dover rifiutare né l’importanza di quell’intervento, della sua significatività per il metodo qui presentato, né la direzione che esso dava al problema ariostesco.

Né trascurerei un caso minore, ma assai sintomatico per le possibilità di una interpretazione impostata sulla poetica e sulla ricostruzione dinamica di una personalità storico-poetica nel suo sviluppo intero di poetica e di poesia, nella sua intera esperienza e commutazione in direzione artistica della sua esperienza vitale, storica, letteraria.

Quello del lirico Giovanni Della Casa[6], troppo a lungo rappresentato, nella tradizione critica moderna, romantica e postromantica, come figura di petrarchista sic et simpliciter in una visione puramente negativa del petrarchismo cinquecentesco, e piú recentemente (dopo la valorizzazione crociana del petrarchismo come disciplina e scuola letteraria) interpretato come abilissimo retore e applicatore della retorica ciceroniana in poesia.

Mentre, in una ricerca storico-critica mossa dall’interno della sua poetica nello sviluppo di tutta la sua personalità e delle sue esperienze vitali e culturali (insomma, ancora una volta alla luce di uno studio della poetica nella sua accezione piú intera), è venuto rivelando (su di un percorso critico piú recente non solo mio e arricchito di interventi assai convergenti con le mie esigenze) un singolare sviluppo da tecnica a poesia, un’interna maturazione di autentici motivi poetici. I quali vennero manifestandosi quando, nella tarda situazione biografica del poeta, un moto di delusione e di ripensamento della propria vita, sollecitato da vicende personali e da consonanze interiori con il nuovo clima culturale e religioso del secondo Cinquecento, corrispose ad una presa di coscienza poetica della propria esperienza e della propria natura artistica. E i mezzi espressivi prima sperimentati in una dimensione piú chiaramente retorica (anche se non priva di tensione alla poesia) vennero dal Della Casa adibiti a nuove e schiette funzioni poetiche, a una nuova gravitas interiore e personale (a cui aveva guardato già il Tasso in una consonanza storica e poetica troppo obliterata nelle posizioni romantiche e non perciò meno stimolante per chi indaghi ed accetti le offerte intere della storia della critica senza fermarsi agli ultimi esiti di essa), ad un nuovo sguardo lirico meditativo che consolida il senso piú profondo della propria situazione vitale e della esistenza umana in miti e quadri di singolare intensità e fermezza lirica e in avvii di poesia «metafisica». Né credo che di fronte a questi risultati si possa ritornare ancora ad una storia del Della Casa (e non solo del Della Casa) solamente stilistica, sul modello della critica figurativa. Ché, tutto sommato, se la critica figurativa ci ha aiutato a vincere psicologismo e contenutismo piú facili, mi pare che essa ora debba avvantaggiarsi della lezione stimolante della critica letteraria con la sua piú forte esigenza storicistica e con il suo senso delle personalità e del loro mondo interiore-storico mai equiparabile a pura «tematica» astrattamente intesa.

D’altra parte, come ho già accennato, lo studio di poetica mi si prospettò nella zona giovanile degli anni intorno al ’35, come possibilità di ricostruzione della storia letteraria non solo nei suoi capitoli monografici-storici su singoli poeti, ma come storia di epoche innervate nell’impostazione e sviluppo di poetiche, come ricostruzione di poetiche generali e di poetiche-poesie personali, in una prospettiva unitaria e articolata che poi mi si è meglio chiarita con la nozione di tensione poetica e di poetica come tensione alla poesia.

Cammino segnato da alcune tappe fondamentali nel mio lavoro e nel significato generale di esso. Anzitutto la ricostruzione della poetica del decadentismo italiano (1935-1936) che, mentre concretamente fruttava una prima delineazione e sistemazione del vasto periodo che corre dalla decadenza del romanticismo alle origini della letteratura contemporanea, e mostrava cosí la sua concreta capacità di fare storia, superava l’impasse di un giudizio polemico sul decadentismo; laddove essa pur non perdeva di vista – evitando la semplice squalifica moralistica – i margini vistosi dell’estetismo, della retorica superomistica nei suoi corrispettivi e nelle sue conseguenze civili e morali, tanto che il mio libro venne attaccato su quel piano per il suo «europeismo» e per le sue implicazioni politiche. Certo, rivedendo le cose dalla prospettiva dell’oggi, ben avverto le sue mancanze e inadempienze nei confronti della narrativa decadente o del teatro pirandelliano e nei confronti del passaggio fra romanzo verista e romanzo decadente, sia nella diagnosi del fallimento civile e democratico degli esiti del Risorgimento, sia nell’approfondimento dell’analisi della realtà esterna e interiore; sento che i suoi risultati andavano e vanno integrati, arricchiti, e approfonditi[7]. Ma la prospettiva era giusta e innovatrice e, pur con incertezze anche metodologiche (non direi piú che si fa storia solo delle poetiche e non della poesia), offriva un modulo storiografico di valor generale e innestava coerentemente la ricostruzione, ad esempio, della poetica e poesia dannunziana entro lo sviluppo di tutta la complessa tensione di un’epoca.

Come meglio mi riuscí poi di fare nel caso del preromanticismo[8], applicando piú fortemente la nozione di poetica non solo allo stato di programma, ma come tensione operativa espressiva di un’epoca che venni delineando al di là delle vecchie indicazioni di una moda ossianesca, di un’Arcadia preromantica e lugubre, mediando il passaggio dal seno dell’illuminismo nello sviluppo sensismo-sentimentalismo, facendo convergere gli spunti di nuova sensibilità e di nuove intuizioni verso la profonda intuizione preromantica dell’Alfieri.

E piú recentemente, storicizzando la letteratura del Settecento alla luce della poetica e della sua espansione piú larga e della sua piú chiarita funzione al recupero storico della poesia[9], mi pare di avere nuovamente fatto fruttare storiograficamente il mio metodo nel caso della civiltà arcadico-razionalistica, articolandone fortemente il fronte irraggiato di apertura e poi il consolidamento storico e storico-letterario nella via miniaturistico-melodrammatica culminante nella poesia metastasiana che di quella poetica traduce poeticamente gli elementi piú congeniali e storicamente attuabili.

Qui storia del singolo poeta e storia della civiltà letteraria generale si son venute anche meglio saldando e articolando e, a parte i recuperi di singole espressioni poetiche o di tensioni irrealizzate, ma ben pertinenti allo sviluppo della problematica arcadico-razionalistica, l’esigenza dell’articolazione di tensioni letterarie-culturali in direzione poetica si è venuta meglio affermando, di contro a giudizi globali e indifferenziati, negativi o positivi che siano, una rappresentazione valutativa delle forze in movimento, delle loro cadute e dei loro limiti, delle loro realizzazioni e dei loro rapporti con il futuro, trasformando quello che in zona crociana era un giudizio di generale valore propedeutico dell’Arcadia o di un suo significato di corrispondenza letteraria-culturale in un quadro storico folto e in movimento che assicurasse il quanto e il come della poesia e delle tensioni alla poesia che vi si spiegano e giustificano.

Mentre la scansione del secolo, fondata sul momento di presa di coscienza e di commutazione e di direzione artistica della poetica, mi ha permesso di meglio precisare, di fronte al quadro tutto arcadico del Settecento crociano o alla serialità graduata ma troppo continua di altri quadri o alla pura frattura tra primo e secondo Settecento (che è pur momento da non perdere nella sua verità centrale, nella ricostruzione desanctisiana), un quadro in movimento che segue il mutare storico dall’Arcadia all’illuminismo, e poi all’intreccio preromantico e neoclassico, in cui prendono posto e valore gli scrittori del Settecento sottratti ad una pura serialità monografica e insieme fatti vivere nella forza del loro intervento storico-personale e nel loro risultato di poesia[10]. Ché alla fine occorrerà anche dire che la mèta di una indicazione-spiegazione della poesia non è errata, ma errato è il metodo della rigida separazione puristica e frammentaristica, prescindente dalla genesi storica della poesia, come errata è una misurazione indiscriminata e descrittiva dei fatti artistici o viceversa una loro semplice diagnosi di rappresentatività storica, di rispecchiamento della realtà storica prescindente dal loro significato poetico.

Mentre, nello studio storico-critico, se per necessità pratiche si può distinguere, come avviene nella elaborazione di libri e saggi, tra monografie e capitoli di storia letteraria di epoche, in senso assoluto la distinzione non esiste e unica è la prospettiva di lavoro sempre storiografico e sempre critica sia che si appunti sulla storia di un singolo scrittore (ma mai separato dai suoi vivi nessi con il proprio tempo e con la tradizione), sia che si applichi ad un periodo e magari a tutta una storia letteraria.

Non c’è, ripeterò ex abundantia, non c’è secondo me (ma tutti i discorsi sono alla fine sempre «secondo me») una storia letteraria che possa prescindere dalla interpretazione dei singoli scrittori e dal loro giudizio critico, come non c’è una monografia critica che non sia, a parte questioni di proporzione, storia letteraria, capitolo di una storia letteraria. I tentativi di separare nettamente i due piani di studio sono di fatto una ricaduta in posizioni per noi predesanctisiane. E mi par difficile autenticare un simile ritorno all’indietro, senza con ciò negare (e in tutto il mio discorso c’è la distinzione fra una prospettiva centrale e didascalica che mi ha portato a polemizzare con tanti casi interessanti e vivi e il riconoscimento di interesse di singoli casi diversi dal mio) un interesse anche a questi tentativi come contributo nella storia della cultura attuale, ma negando risolutamente il loro carattere critico e veramente storico.

Credere nella reciproca indifferenza della storia letteraria, come storia descrittiva di fatti generali, e della critica, come giudizio sulla concreta opera d’arte, vuol dire dissolvere la storicità della critica e la funzione critica della storia letteraria. Per conto mio ciò equivarrebbe a negare tutto lo sforzo della mia prospettiva e della tradizione di origine desanctisiana (sol per indicare un termine sempre vivo di essa) che non rinnegherei mai per le effimere mode che solcano il nostro orizzonte culturale con novità che spesso si rivelano alla lunga assai piú vecchie della stessa base crociana cui reagiscono.


1 Il mio libro del ’47, La nuova poetica leopardiana (Sansoni, Firenze, 1947, 19714, con l’aggiunta in quest’ultima edizione di Tre liriche del Leopardi, prima pubblicate presso Lucentia, Lucca, 1950), fu preceduto da un saggio, Linea e momenti della lirica leopardiana, uscito nel volume miscellaneo Celebrazioni marchigiane, Macerata 1935. Piú recentemente sono ritornato sul problema leopardiano con il saggio La poesia eroica di Giacomo Leopardi («Il Ponte», 12, 1960) e con l’introduzione alla nuova edizione (Sansoni, Firenze, 1962) del volume del ’47, nonché con il saggio Leopardi e la poesia del secondo Settecento, «La Rassegna della letteratura italiana», 3, 1962 (ora in La protesta di Leopardi, Sansoni, Firenze, 1973, 19742). Dopo l’uscita di Poetica, critica e storia letteraria ho pubblicato l’introduzione a G. Leopardi, Tutte le opere, già cit., e il volume La protesta di Leopardi, qui sopra citato.

2 Si veda l’ultima parte del capitolo leopardiano del Compendio della storia della letteratura italiana, III, Firenze 1947.

3 Fra i saggi che io considero piú importanti in vista di una nuova interpretazione storica del Leopardi, ricordo quello di C. Luporini, Leopardi progressivo, in Filosofi vecchi e nuovi, Firenze 1947 (sulla cui importanza e sui cui limiti rinvio ad una mia recensione nel «Nuovo Corriere» di Firenze, 17 agosto 1948), ed anche (per la conferma che ne deriva circa le forze attive della personalità leopardiana in toto) il volume di S. Timpanaro Jr., La filologia di Giacomo Leopardi, Firenze 1955 (e poi piú recentemente S. Timpanaro, Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano, Pisa 1965, 19692, e Sul materialismo, Pisa 1970).

4 Il mio saggio Metodo e poesia di Ludovico Ariosto, D’Anna, Messina-Firenze, 1947, 19703, derivava dall’introduzione (pubblicata come saggio nel «Leonardo» del 1940) e dal commento ariostesco, Sansoni, Firenze, 1942. Si veda ora Ludovico Ariosto, ERI, Torino, 1968, e Le lettere e le «Satire» dell’Ariosto, in Atti del Convegno ariostesco dell’Accademia dei Lincei, 1975, e in «La Rassegna della letteratura italiana», 1-2, 1975.

5 Fra i recenti contributi ariosteschi notevole soprattutto quello di L. Caretti, in Ariosto e Tasso, Torino 1961.

6 Il mio saggio si trova raccolto nel citato Critici e poeti dal Cinquecento al Novecento. Per altre interpretazioni del Della Casa, divergenti o vicine alla mia, si veda l’introduzione di A. Seroni al commento delle Rime (Firenze 1944), i saggi di E. Bonora (in Gli ipocriti di Malebolge, Ricciardi, Milano-Napoli, 1952), di L. Caretti (in Filologia e critica, Ricciardi, Milano-Napoli, 1954), di L. Baldacci (Il petrarchismo italiano del Cinquecento, Ricciardi, Milano-Napoli, 1957).

7 Per la questione critica del decadentismo si veda ora R. Scrivano, Il decadentismo e la critica cit.

8 Preromanticismo italiano, ESI, Napoli, 1948, 19592.

9 Una linea generale di interpretazione del Settecento italiano è rappresentata dal saggio introduttivo, Poetica e poesia del Settecento italiano, del volume L’Arcadia e il Metastasio cit.

10 O, per servirmi di esempi tratti dal lavoro di alcuni miei ottimi allievi ed amici, si pensi all’utilità storico-critica del tentativo dello Scrivano di ordinare e far vivere tensivamente la civiltà manieristica e l’età del Tasso al di là dei deboli accenni di un’età del Tasso e di una svolta del secondo Cinquecento troppo immediatamente risolta in anticipo del Barocco; o alla sistemazione del Seicento da parte di Franco Croce che, sulla base comune di una civiltà di tipo feudale e controriformistica, ma percorsa da elementi e fermenti nuovi o conservativi-nuovi (la civiltà fiorentina e il Barocco moderato con i suoi rapporti prearcadici), è venuto ricostruendo un quadro folto e vivo delle poetiche barocche nella loro varietà, meglio di quanto si potrebbe fare con un esame generale della categoria barocca o dell’unico stile barocco colti nella loro ultima realtà e non riattinti nella loro genesi e articolazione. Si veda R. Scrivano, Il manierismo nella letteratura del Cinquecento, Padova 1958; F. Croce, Carlo de’ Dottori, Firenze 1957; Id., I critici moderato-barocchi, «La Rassegna della letteratura italiana», 1954-1955, ora in Tre momenti del barocco letterario italiano, Firenze 1966; Id., recensione alle antologie della lirica secentesca del Getto e del Ferrero, in «La Rassegna della letteratura italiana», 1, 1955; Id., Le poetiche del barocco in Italia, in Momenti e problemi dell’estetica, Milano 1959.